Florilegio 22-23

FLORILEGIO DI BIBLIOSCRITTURA – 2022/23
a cura di Agostino Arciuolo e Benedetta Nanni

Barthes

1. Il laboratorio di quest’anno, il primo finalmente in presenza, ha avuto come tema e filo conduttore i cinque sensi, la loro esplorazione attraverso la scrittura. Il primo esercizio è consistito in una variante del medesimo stimolo d’apertura utilizzato in entrambi gli scorsi laboratori, ovvero chiedere a ognuno dei partecipanti di scrivere due elenchi, possibilmente non ragionati, di cose che piacciono e cose che non piacciono. L’autore di riferimento, la cui lettura ha fornito l’esempio e lo spunto d’avvio, è stato, come anche nei primi incontri precedenti, Roland Barthes. Il suo enumerare in maniera apparentemente caotica piaceri e fastidi è, in fondo, una riflessione sull’unicità, anzitutto fisica, corporea, di ogni singolo essere umano. Trattandosi nel nostro caso di scrittura sensoriale abbiamo scelto però di porre un vincolo, ossia che gli elenchi fossero composti di cinque voci ciascuno, una per ogni senso. Tutti hanno avuto così l’occasione di presentarsi al gruppo, ognuno coi propri gusti e disgusti, sfizi e stravaganze personali; e di farlo tramite un esercizio tutt’altro che impegnativo, a partire da una sorta di “grado zero della scrittura” (che è titolo, non a caso, di un’opera dello stesso Barthes). Riportiamo di seguito alcuni degli elenchi, mini-inventari di sensazioni e piccole debolezze quotidiane.

 

Mi piace: l’odore delle lenzuola pulite, la coca-cola ghiacciata dopo una giornata intensa, la vertigine che provo osservando l’immensità del mare, ascoltare il rumore della gente che studia in biblioteca, tuffarmi nell’acqua gelida quando fuori è caldo. Non mi piace: l’odore di chiuso che ha la casa dopo una lunga assenza, la pasta scotta, vedere le persone piangere, il rumore dell’aspirapolvere, il freddo sulle mani quando vado in bicicletta senza guanti. (Alice Giuffrida)

 

Mi piace: il cloro sulla pelle, l’odore della pizza surgelata, il pane tostato con l’olio, gli M&Ms alla stazione alle 18, la marmellata della crostata sulle dita quando la distribuisco ai bambini, il rumore del vento tra gli infissi alle 21, vedere le fossette su qualcuno che non sia me stessa. Non mi piace: l’odore acre del francese, il sapore amaro in bocca dopo una lezione di scienze, i maglioni con le maniche larghe nella giacca, il fango nel recinto buio alle 16, i calci ai cestini nel silenzio. (Michela Lambertini)

 

Mi piace: l’unione tra il cioccolato al latte e il pistacchio, l’aria pulita degli spazi aperti (che sa un po’ di libertà), i fiocchi di neve che mi atterrano sul volto, le risate a tarda notte nel silenzio più assoluto, la luce del sole che entra dalla finestra la domenica mattina. Non mi piace: il sapore ferroso del sangue, l’odore del GPL, il muro ruvido, il rumore che fa mia sorella quando si rischiara la gola, il ripetersi del bip della retromarcia, vedere voti arancioni sul registro elettronico. (Giulia Tori)

 

Mi piace: il muschio verde intenso dopo la pioggia, il cappello delle meduse, la torta di mele di mia cugina, l’odore della neve, René Aubry. Non mi piace: Il sale dopo il bagno in mare, molte persone che parlano sconsideratamente durante filosofia, il crème caramel, l’odore di cera bruciata, l’asimmetria. (Margherita Bertocchi)

 

 

Palazzeschi2. La seconda parte del primo incontro si è svolta nel segno della famosa “passeggiata” di Aldo Palazzeschi: dopo avere letto e commentato insieme la poesia, l’invito alle biblioscrittrici e ai biblioscrittori è stato di provare a mettere giù un componimento sulla stessa scia, mettendo cioè in fila, un verso dopo l’altro, le sensazioni da cui si è colpiti durante il più frequente dei percorsi, nel momento della giornata in cui i sensi sono più permeabili e oppongono meno filtri nei confronti del mondo esterno: il tragitto da casa a scuola, sei mattine su sette. Le poesie scritte sono un carosello di suoni e rumori, sguardi indiscreti, spezzoni di frasi, orari e coincidenze, odori sgradevoli o fragranti, insegne, cartelli, impulsi captati con le code di occhi e orecchi e con ogni altro organo di senso.

 

6:46

1 minuto in più

il dentifricio appiccicato sul palato

corro

il sellino è bagnato, ghiacciato, congelato

6:48

via via devo andare

lo scricchiolio della catena

il respiro alla fine si allena

gocce dal naso

cambio tasca al telefono, ho perso un bottone

il fiatone

52 54 56

il sale sul marciapiede

il rapper di quartiere

un getto di aria bollente

un sacco di gente

grida lontane

qualcuno non ha dormito

enormi vasi di fiori

quello stecco mi passa il panino

lo mangerò davvero oggi?

il sedere per terra

un anziano si alza

perché si sarà alzato?

Non è di certo arrivato

lo faccio passare, ma non mi torno a sedere

La musica lontana, un ronzio da un orecchio solo

Qualcuno non ha collegato bene le cuffie

ed ora stiamo tutti apprendendo a cucinare una torta salata congolese

Fa un caldo tremendo

Perché fa così caldo?

BIP BIP BIP

uno zaino dritto in faccia

due scuse e tre passi avanti

via via via

25 27 33

Ho male a un piede

ridicolo, cammina

La nascita della città

le 7 e zero otto

tutto vuoto ma resto all’erta

quello non mi parla

chissà perché è così arrabbiato

pulsante rosso, ora ci starò lontana

cover staccata, mille fiori per terra

BIP scade il 31/08 Buon viaggio

un pompom, un viso noto

passo oltre, ho paura di 32 denti bianchi

un dosso due dossi tre dossi

sento già il sudore addosso

respiro

occhi mattone

canzoni a spezzone

gambe accavallate

mi sento crudele

basta, giù

tremarella

rosso due anni rosso tre

fingere equilibri, non ridere

e poi per cosa?

oplà

uccelli ovunque

melette marce

una puzza tremenda

il lato della strada sbagliato

trascino il piede

ridicolo ridicolo

libreria

farmacia

i cani maleducati

uno lava il portico col mocio

più ridicolo del piede

sarà che sono di campagna…

(Michela Lambertini)

 

Rotonda vuota

lampione acceso

congelamento delle mani,

crocifisso della casa gialla,

la Coop.

Fermata dell’autobus,

27 19

A B C

portico della chiesa,

timore che qualcuno mi segua

negozio di biciclette

elettriche, attenzione,

profumo di paste appena sfornate

dolci vuote, zucchero

cercasi personale con esperienza,

Hotel Blumen.

Tintoria

prossima fermata

porte Mazzini.

Pollo arrosto e cannoli

nuvole ed alba

pesce crudo,

qui in congelatore,

pizza e mele ripiene

hai spazzato il pavimento?

Sartoria

piccione planante

signora con cane

Bologna per sempre,

pensieri antifascisti,

i gioielli dei longobardi

capienza 150

sconti 20%

calzature ortopediche

sostieni la causa,

ho perso il 13!

Carne cruda, acre

ragazzo con barboncino

attenzione, bagnato!

Brioches e prosciutto

Teatro Duse, 

sporcizia e bidone pieno

Forno Brisa,

protesta studentesca

hai studiato latino?

(Margherita Bertocchi)

 

Bip ascensore

freddo freddo sto congelando

vieni a trovarci! entro il 24/07/23

buongiorno al vicino

Baby bang it up inside

ragazzini delle medie con lo zaino aperto

passa il 33, merda

aspettare il verde

non fa niente, passo lo stesso

aumai, via san felice

ritardo di tre minuti 

bip bip clang clang

si spengono le lampadine notturne dei portici

19,13 

sono in ritardo

quel ricordo che avevo di noi

portafogli e beni personali grazie

via castiglione

odore di cibo che non posso mangiare

ritardo ritardo ritardo

ho dimenticato di fare francese

eurospin 

starts another big riot

malessere generale

scale scale scale caldo

(Alice Giuffrida)

 

 

Ponge3. Prima di affrontare i cinque sensi uno per uno, col primo esercizio del secondo incontro ci siamo proposti di affinare la capacità di ascoltarli, di accogliere quanto hanno da trasmetterci, non dando nulla per scontato e sforzandoci di vedere le cose come per la prima volta. Si è trattato insomma di rizzare le antenne intorpidite dall’abitudine, rispolverando quell’emozione primitiva che è la meraviglia dello stare al mondo, del sentircelo intorno. A venirci in soccorso è stato Francis Ponge, autore francese appartenente alla scuola dell’OuLiPo, da cui già altre volte abbiamo tratto spunti interessanti per la biblioscrittura. In una sua opera dal titolo “Il partito preso delle cose”, Ponge descrive oggetti e aspetti del quotidiano attraverso prospettive inconsuete, in brevi componimenti che hanno il sapore di incursioni fugaci nelle pieghe più nascoste di ciò che ci circonda, di ciò che sempre ci sta sotto gli occhi. L’esercizio è consistito allora nel cimentarsi con lo stesso tipo di operazione, scegliendo un oggetto di uso comune e provando a descriverlo in un modo che comune non fosse.

 

Il foglio bianco appare più vasto del bassopiano della Siberia occidentale, coperto di neve vergine mai dissacrata da tocco umano. Il foglio è altrettanto infinito e accecante, sfiorare la fredda superficie sembra impossibile. Ma presto arriva un pioniere coraggioso che lascia la propria traccia scura sulla pianura gelata, e apre la strada per altri dopo di lui. Impresa eroica! Ormai si scioglie la neve e le orme di inchiostro sono la terra sottostante, umida e viva. Il silenzio eterno è rotto dal raschiare e scricchiolare della penna sul suolo ghiacciato. Le parole occupano spazio sul foglio e lo rovinano con buche e incisioni, liberando l’odore naturalmente chimico della sostanza bruna. La spedizione infine giunge al confine e gira per tornare indietro: è ora di continuare l’esplorazione del luogo incontaminato. (Eleonora Sartori)

 

Le mani cambiano da persona a persona: ruvide, lisce, curate, trasandate... Le mani della mia nonna sembrano un foglio liscio, un po’ accartocciato. Altre volte sembrano un foglio ruvido, soprattutto d’inverno. Pare di essere al mare, la sabbia ruvida e calda come il dorso della mano, con pezzi di conchiglie taglienti, con le unghie simili alla sabbia bagnata in riva al mare. Quando tocco il palmo, pare d’essere in tutt’altro posto: pelle liscia e morbida. Arrivati alle nocche, pare d’essere su montagne o colline. Altre mani “emanano” calore solo a guardarle, sudate, bagnate. Ma d’altronde, le mani sono mani. (Diletta Andreoni)

 

La superficie dell’astuccio non è né ruvida né liscia: quando lo tocchiamo con un po’ più di attenzione, potremmo sentire sulle dita decine di centinaia di filamenti legati insieme, in un’armoniosa e ordinata composizione. Sembra in forma, forse è persino un po’ pienotto. La cerniera, al contatto fredda, è una sequenza di dentini, figure che si completano l’un l’altra. E poi boom!, arriva il distruttore della pace eterna: la cerniera. Separando ciò che non dovrebbe, districando nodi inesistenti provoca il caos: i dentini di metallo, disperati dall’improvvisa perdita, iniziano a ringhiare, e tutti insieme trovano la forza di aprire l’astuccio, che inizia a riversare scontento tutto il suo contenuto: penne matite evidenziatori si spargono ovunque. E ancora i dentini non si danno pace, stridono mordono graffiano qualsiasi cosa a tiro. Finalmente la cerniera si decide a tornare al suo posto, ristabilendo un’inattesa tranquillità. (Alice Giuffrida)

 

 

Cavanna4. Come gli oggetti, anche i nomi s’impolverano nell’uso e nell’abuso quotidiano, ell’abitudine a essere pronunciati e ascoltati, ripetuti allo sfinimento. Questo esercizio ha avuto lo scopo di rimuovere la patina opaca che li ricopre, lasciandone emergere la pregnanza a partire dalla forma delle lettere che li compongono o, ancora prima, dal nudo suono che essi hanno alle nostre orecchie. L’ispirazione è stata fornita da un altro autore francese, François Cavanna, e dalla sua abilità di dare alle parole una vita propria, di caratterizzarle e talvolta umanizzarle a prescindere dal loro significato. Abbiamo chiesto ai partecipanti di fare lo stesso, con nomi propri di persone o magari di luoghi, e quelli che seguono sono alcuni dei testi prodotti.

 

Bastia è una nobile decaduta, signora degli spifferi, sovrana delle ragnatele. La si sente arrivare dai passi pesanti e strascinati della B dalle guance rubiconde, che cammina piano, con classe, facendo attenzione al rimirarsi nei riflessi dei vetri offuscati con la tipica vanità di una lettera A, che può sembrare frivola per come si atteggia aggiustandosi quel suo trattino al termine facendolo andare all’insù. E’ fastidiosa per la S e la T, una strana accoppiata di signore: S bassa e tarchiatella, opulenta di tutti i pesanti monili d’oro sulla veste blu di prussia, e T, alta e smilza, la sottana di velluto verde muschio che le casca. La I è la loro favorita, nel suo giacchetto di piume d’oca. L’accento del nome lo porta nelle iridi degli occhi sorridenti color del cielo di novembre. Tutte le lettere si riuniscono a formare il nome pomposo. Bastia ha perso il lustro che aveva quando la B era ancora bella, quando la S e la T erano ancora ragazze, quando si adornava non di spifferi e ragnatele ma di profumi e risate di bambini. Se solo si sapesse quanto le mancano i suoi tempi d’oro, adesso che il tubare lontano della tortora e il ronzio delle mosche sono le uniche musiche ad allietare le lettere stanche… (Benedetta Trisolino)

 

Mai mi sarei immaginata la descrizione di tale fluidità, la quale imprime vivide immagini nei miei occhi. Se ci si pensa, la lettera A pare un triangolo, preciso, ma aperto ed accogliente, nella sua attitudine di attento ascoltatore. Così può apparire Agnese, tanto quanto la lettera accorta a certe questioni come di ogni altra, ed interessata alla propria gentilezza. Se probabilmente leggesse le parole qui scritte, forse dissentirebbe. Invece la lettera G ricalca nella sua pienezza il viso rotondo e leggermente spigoloso, donando un certo tipo di completezza, e svela inoltre gli occhi scuri, rotondi, sferici e grandi come nocciole ricoperte di cioccolato. E con la N, come se fossero un solo, unico connubio indefinito di segni e suoni, mi porta alla mente le grandi montagne, maestose e magnifiche, delle quali spesso mi racconta sognante, sperando che prima o poi potrò con lei apprezzare la chiarezza indecifrabile della natura. La S invece, serpentina e meschina, mi confonde con la sua matematica, seno, coseno e numeri di infinita complessità, di cui solo lei pensa di possederne la chiave. La E infine, morbida ed affilata, pare il suo sorriso, vasto come una valle colta dalla dolcezza della primavera, ed anche il ghigno infastidito con la storia dell’arte. Agnese cos’è alla fine? Probabilmente l’alfabeto intero come Agnese stessa. (Margherita Bertocchi)

 

Anna. È il nome di un ciclo. Ma non della ripetizione noiosa, si tratta di qualcosa di diverso e stupefacente, ogni volta limpida e cristallina non si può ingannare. Le N, dolci ragazze apparentemente robuste, sottratta una gamba si trovano sbilanciate verso l’ignoto. Si porgono una spalla su cui piangere, si sostengono a vicenda: se c’è una, l’altra non potrà vacillare. Le due A come mura inespugnabili le proteggono, le difendono da quella cattiveria gratuita che il mondo è pronto a regalare fin da subito. Anna, soffice bambina, come un riccio ha imparato ad alzare le sue barriere. Nessuno la può chiamare “Ann”, sua mamma ha smesso di chiamarla “Nanì” da anni. Si sentiva nuda, esposta e visceralmente indifesa. Anna è diventata dura, le torri di difesa sono diventate corazzate e da un momento all’altro era in trappola. Anna, che ha schiacciato dentro un libro la banalità del suo nome, oggi, forse, mi tenderà la mano. (Michela Lambertini)

 

Già dalla prima lettera riusciamo a comprendere la meravigliosità dell’oggetto in analisi. La M infatti ha un suono talmente morbido che sembra imitare l’intensità di un abbraccio, una forma tale da racchiudere al suo interno ogni movimento armonioso possibile. Passando alla A, la sua struttura assomiglia a quella di un rifugio, sicuro, e dà la sicurezza di una salvezza immediata. (Alice Giuffrida)

 

Lettera S così armoniosa e dolce come il miele, pronunciata da una persona magnanima e gentile.

Oppure aspra e arrogante, simile alla Z, aspra come il limone, pronunciata da una persona precisina e arrogante. I sottile e decisa, che accompagna la S in un suono melodico. La M, cosa dire della M? Lettera che non sa né di caldo né di freddo ma che accompagnata dalla O, da un suono deciso. La O non si appoggia a nulla, intraprendente e indipendente sia nel suono sia nell’aspetto. N lettera vanitosa e decisa. La lettera A, la mia preferita, la lettera delle parole importanti: amicizia, amore. La A dà l’idea di essere a casa, in un posto sicuro, come abbracciati dalla persona più fidata. Tutte insieme, le lettere formano SIMONA, espressa con un’unica emissione di fiato, fedele, gentile e rassicurante. (Diletta Andreoni)

 

Rossana: un’esplosione di magenta e carminio. Bisogna essere risoluti per ottenere il massimo effetto, a partire dal rotacismo iniziale che aspetta con aria di sfida un intraprendente che si accinga all’impresa. Si parte, la lingua ruota e poi la bocca si spalanca per farci entrare la vocale colossale. Una pausa per osservare il seguito, si sibila soffiando tutto il fiato. Siamo solo alla metà? Il suo nome richiede tempo e sforzo, cose che non siamo abituati a donare quotidianamente. Appartiene a un’altra epoca, è fatto per essere scritto con una stilografica su una pergamena. Ma se sopportiamo il terremoto e l’uragano siamo accolti a braccia aperte dalle a amorevoli, che racchiudono una n delicata e timida, poco sonora. Lo sforzo è ripagato. (Eleonora Sartori)

 

 

Lucarelli5. I rimandi tra musica e letteratura sono sempre stati frequenti, variegati, profondi. Ne abbiamo esplorato alcuni aspetti partendo dalla lettura di un passo tratto da un romanzo di Carlo Lucarelli, “Almost Blue”, il cui protagonista non vedente si lascia trasportare dall’ascolto dell’omonimo brano di Chet Baker. Siamo poi passati a commentare alcune scene di “Fantasia”, film d’animazione della Disney che gioca sull’accostamento tra musica e immagini. A questo punto abbiamo chiesto a ognuno di raffigurarsi mentalmente una situazione che potesse fungere da punto di partenza per un testo; dopodiché abbiamo fatto partire una delle sinfonie del film, la “Pastorale” di Beethoven, e invitato ognuno a lasciarsi trasportare dalle note, dai cambi di ritmo, dagli accenti e dalle sensazioni suscitate dall’ascolto per consentire a quella situazione iniziale di trasformarsi, prendere direzioni inattese, evolversi. Ne sono emersi dei begli esempi di scrittura sensoriale, ricchi di sinestesie e suggestioni interessanti che riflettono, ognuno a modo suo, il progredire musicale del componimento.

 

Una prima ondata di rosso si espande a coprire l’azzurro del pomeriggio. Sopraggiunge l’arancione e arricchisce gli strati del tramonto. Il rosso si intensifica e comincia ad allargarsi, ora ricopre tutta la fascia più bassa dell’orizzonte. Un nuovo settore di blu sparisce dietro ad un arancione sempre più incandescente e desideroso di farsi notare. Il cielo torna ad incendiarsi e poi nuovamente si sfuma. Finalmente, i due sembrano aver trovato un loro equilibrio, nella colorazione ormai completa del cielo non più celeste. Improvvisamente, non sono più soli: il viola sorge in mezzo a loro e li offusca, sfocandoli lentamente, rubando loro la scena con grazia. Si impossessa del loro spazio e scurisce il mondo fino a spegnerlo completamente. La luce scompare e un blu sempre più scuro dilaga ovunque, fino ad occupare ogni sprazzo di cielo. Lenta e leggera, la trasformazione è inarresistibile ed infine il nero più totale giunge a reclamare il suo posto. È buio pesto: tutto è ancora nella stessa posizione, ma non si muove più. Il mondo è immobile al cospetto della notte. Poi, una goccia, due, tre, dieci, cento, mille e mille ancora infestano l’aria: scendono dal cielo per conquistare. Sembrano vincere, poi perdere. Tornano più violente di prima e infine si fermano: forse un successo, forse una resa. Le nuvole fuggono e il nero del cielo non è più l’indiscusso padrone, ora risulta vinto, ferito da nuovi elementi: più chiari, più bianchi, più luminosi. Piccoli punti di luce compaiono a tappezzare la notte scura. Si spargono e si dispongono, poi danzano ancora e si ridispongono. Si salutano, si abbracciano, disegnano in ogni dove nuove costellazioni, come chiare rappresentazioni delle loro chiacchiere. Dopo infiniti discorsi, sfinite, sentono la loro luce offuscarsi, essere sopraffatta da una forza più grande: giunge il giorno. (Giulia Tori)

 

Piano piano esco di casa, scavalco la rete, prendo la bici e inizio a pedalare sempre più velocemente. Il profumo del mattino mi risveglia, il sole sta sorgendo, sul prato c’è ancora la rugiada che bagna le ruote della bicicletta. Imbocco la strada lungo il canale, le anatre stanno sguazzando nei pochi centimetri d’acqua e le ranocchie saltellano da un sasso all’altro. Io pedalo più veloce che posso. In lontananza lo vedo, il caro salice piangente che illumina come un faro nella notte, mi indica il traguardo. Lascio la bici sotto i suoi rami nascosta da occhi indiscreti imbocco una stradina. Dopo poco arrivo in un campo pieno di tulipani. È un turbinio di colori: rosso, bianco, blu, viola, arancione, rosa. Dopo qualche minuto sento delle voci provenire dal sentiero. In un primo momento mi spavento ma subito dopo le riconosco. Sento il loro profumo di familiarità e protezione, un profumo così buono e dolce. Li vedo arrivare tutti insieme scherzando, ridendo, correndo e saltando come cavallette riempiono il mio cuore di felicità. Dopo mesi rivedo finalmente i miei amici. Poi il cielo si fa più scuro, buio, le nuvole coprono il cielo, la pioggia inizia a cadere e un vento forte da nord soffia. Ci ripariamo sotto il salice e aspettiamo, per fortuna dopo poco la fastidiosa pioggia primaverile smette di cadere così saliamo ognuno sulla propria sella e ci salutiamo, prima però di andare via ritorno dai tulipani, ne raccolgo uno e lo infilo tra i capelli. Ripercorro la strada di casa, riscavalco la rete, apro la porta di casa ed entro silenziosamente in camera. Entra mia madre per darmi il buongiorno, si accorge del fiore nei miei capelli e mi sorride. (Camilla Graziani)

 

Era nella sua campagna, il suo porto sicuro. La lunga strada che costeggiava gli orti si stendeva alle sue spalle. Con le mani gelide aggrappate alla staccionata guardava dritto davanti a sé, ma non vedeva niente. Che cos’è il niente? Sentiva sul palato un odore fortissimo di deodorante al cetriolo, focaccia alle olive piena di prosciutto crudo, latte senza lattosio. In lontananza voci metalliche che procedevano a scatti. Avrebbe voluto aprire gli occhi, o meglio aprirli davvero. Ma non sentiva nulla. All’improvviso uno schiaffo la colse impreparata, non se lo aspettava di certo. Ma lo sentì, sentì la sua guancia bruciare e il sapore di sangue in bocca. Una secchiata di acqua gelida, ma servì. Riuscì a vedere per la prima volta dopo mesi. Era un leone, un leone bellissimo, alto e massiccio con zampe possenti e una criniera foltissima e soffice. Il più bel leone che avesse mai visto se non fosse stato per i suoi occhi, cerchiati da occhiaie, opachi, torbidi. Le si avvicinò piano e lei dapprima indietreggiò. Come si dice, fidarsi è bene, non fidarsi di un leone è meglio. Le porse tre fiori. Questo lei se lo aspettava ancora meno. Li prese. Erano un soffione, una margherita e un piccolo fiore giallo, uno di quelli che perde subito i petali. Le disse “vai”. E lei andò. Iniziò a correre. Corse. Corse per ore. Il vento le era antagonista ma continuò a correre. Inciampò in una, due, tre buche ma continuò. E accelerò, accelerò e accelerò, finché non le bruciò la gola e non sentì esploderle il cuore. I piedi andavano avanti da soli, non li controllava più ormai. Iniziò a piovere, una tempesta la travolse. Boati lacerarono il cielo, macigni le caddero addosso, ma non si fermò mai. E sentì la sua presenza, la propria pesantezza corporea gravarle come non mai, ma non ne aveva abbastanza. Beveva adrenalina e aveva in ogni momento più sete di prima. E poi si fermò. Aprì il palmo della sua mano: i tre petali gialli erano ancora lì. “Stanno bene” pianse, “stanno bene”. “Ok, allora ne vale davvero la pena”. Riprese a correre. (Michela Lambertini)

 

Con un veloce segno d’incoraggiamento, mi inoltrai, tentando di non calpestare i cardi d’un vivace color violetto, nella frescura del bosco in un momento autunnale. Dovrebbe essere il periodo maggiormente adatto alle passeggiate con il mio preciso scopo. Il cappello di paglia mi segue a pochi passi di distanza, preferisce che sia io a controllare, non vuole mettere mano su germi d’ogni natura. Mi fermo, guardo giù dalla discesa impervia, chiedendomi se la ricerca di corna valga la pena. Avanzando, accelero il passo, mi viene chiesto se vedo qualcosa. Dopo una breve occhiata attorno a me d’un grave silenzio. Dal basso della mia condizione finalmente vedo segni di speranza. Le fronde scarne delle querce frusciano ancora leggermente, e quasi il profumo del legno al sole supera d’un certo quantitativo il mio sguardo fisso verso quel globetto bianco. Mi domando, sarà un sogno? Illusione? Allucinazione? Un banale sacchetto di plastica? Corro su per l’erba alta aggrappandomi a cespi secchi, tentando di non incorrere in spargimenti inutili di cellule epiteliali e sangue, oltre che acqua ossigenata. Tutto finalmente tace, ed i grilli che qui e là saltellano, mi sfilan vicino indisturbati. E finalmente la più grande scoperta del mio secolo! Anche se la mascella del poverino è con dispiacere andata in frantumi, rimangono salde le corna e le suture del cranietto. La soddisfazione viaggia fino ad una stanza di mogano piena di reperti del bosco. Mi riprendo, quando il cappello di paglia mi urla di non toccarlo, disturbando la quiete della campagna. Non volendo per nessuna ragione abbandonare lì il ritrovamento, insacco tutto e corro via, obbligando me stessa a due giorni di cure postume del tesoro. Chissà se in futuro potrò ritenermi fortunata più di così! Dovrò, ahimè, aspettare il prossimo giugno, e mai troverò così grandiosa e gloriosa una scoperta di quell’elevatissimo calibro. Pochi giorni dopo, infatti, facendo gli ascoltatori testimoni, scoprii un frammento non identificato, di non so quale animale e non so quale osso, scoperta purtroppo, meno gloriosa della precedente, maestosamente infinita. Serberò sempre nel cuore cotanta magnificenza e grandiosità, senz’alcuno spargimento di sangue da mia parte, di alquanta pazienza del cappello di paglia e di assoluta fortuna e gratitudine verso la campagna e la fortuna. (Margherita Bertocchi)

 

 

Calvino6. Proseguendo lungo il fil rouge dei cinque sensi, non potevamo non imbatterci in Calvino, altra vecchia (e del resto imprescindibile) conoscenza del laboratorio, e in particolare nel suo “Sotto il sole giaguaro”, raccolta di racconti sul tema della percezione sensibile, per l’appunto. Il racconto che dà titolo alla raccolta narra di una coppia di coniugi e di un loro viaggio in Messico, nel corso del quale i due esplorano la cultura del paese e, al contempo, il loro stesso legame attraverso il senso del gusto, immergendosi nella cucina messicana e nei suoi sapori forti, pungenti, carichi di sfumature e di storia. Prendendo spunto dalla lettura di alcuni passi, l’esercizio è consistito nella scrittura di un testo su un’esperienza gastronomica insolita, che avesse lasciato traccia, in positivo o in negativo, nella memoria sensoriale e, per esteso, personale. Eccone un paio.

 

A casa mia, si è sempre mangiato tutto. Ma c’è una cosa che non sono mai riuscita a mangiare: la trippa al sugo. Pensare che la trippa, è uno degli stomaci dei suini, mi impressiona. La prima volta che l’assaggiai, rimasi molto scettica sul sapore: la carne, contrariamente a ciò che potevo pensare, non sa di molto: consistenza molle e viscida, rugosa, talvolta dura chi lascia un sapore strano in bocca. La nota amarognola, è data dalla foglia di alloro e dai chiodi di garofano che inserisce mia mamma durante la cottura. Aggiunge anche la salsa di pomodoro, esclusivamente quella di Datterino, perché secondo lei è meno amarognola rispetto tutte le altre. Piatto semplice, ma allo stesso tempo strutturato secondo un ordine ben preciso: il sapore quasi nullo della carne, seguito da una nota dolciastro del vino marchigiano sfumato. Le erbe aromatiche rendono il tutto saporito e gustoso. L’unica cosa buona, è il fondo del pane croccante: da quella nota croccante, in contrasto con la consistenza della carne. Soprattutto, quando con il cucchiaio, si va a prendere lo spicchio d’aglio, nascosto dal sugo, anestetizza tutto quanto il gusto. Le ciotole di terracotta della mia nonna, tengono tutto il quanto al caldo, e mantengono tutti i sapori, come se fossero racchiusi da una serra. Ma una volta di quel piatto basta e avanza. (Diletta Andreoni)

 

Dopo ore e ore passate a visitare e girare per l’Acropoli, io e mio fratello ci scambiamo quello sguardo. Come sincronizzati su uno stesso orologio, una sveglia risuona nel nostro stomaco simultaneamente. Entriamo nel primo ristorante che vediamo. Neanche il tempo di varcare la soglia che fiuto qualcosa di strano, la mia pancia mi dice che non dovrei entrare ma non considero questo avvertimento. Ordiniamo gyros, souvlaki e moussaka; solo il loro nome ci fa immaginare le gustose rostinciane, le bistecche rosse e succose, le salsicce con il finocchietto e le braciole alla brace che la nonna prepara quando andiamo in Toscana. Addento un morbido e violaceo pezzo di carne: in primis sento la novità e subito dopo un retrogusto di amarezza, ma poi una sensazione strana come mangiare del salame lasciato in una soffitta a impolverarsi e ammuffirsi. Costretta butto giù il boccone, il mio stomaco trema. Alzo lo sguardo per cercare conforto negli occhi di mio fratello, ma lui ha già divorato il suo piatto. (Camilla Graziani)

 

 

Tatto7. A differenza degli altri quattro organi di senso, l’organo del tatto non è localizzabile, coincidendo esso con l’intera superficie cutanea, vero e proprio confine tra il proprio corpo e il resto del mondo. Il tatto è per questo il più “diffuso” dei cinque sensi, oltre che il più difficile da cui isolarsi: si possono tenere gli occhi chiusi, tappare naso e orecchie, ma non si può impedire alla pelle di sentire, di essere ricettiva, di stare a con-tatto anche solo con l’aria che la circonda. A ogni partecipante è stato chiesto, per questo esercizio, di portare un oggetto “tattoso”, interessante al tocco; a ognuno è stato poi chiesto di tenere chiusi gli occhi, mentre gli oggetti venivano raccolti e redistribuiti in maniera casuale. Dopo qualche minuto di esplorazione tattile, senza riaprire le palpebre, il tentativo è stato quello di restituire inchiostro su carta le sensazioni provate, descrivendo l’oggetto sulla base di quanto percepito sulla propria pelle e con quella soltanto.

 

Sento una corolla vellutata ma rigida, dal bordo liscio e secco. Racchiude due pistilli oscillanti ma dalla forma imprevista, è un fagiolo? È un batacchio? Sono piedi! L’oggetto misterioso va girato, il fiore è una gonna: risalendo lungo il soffice cono all’improvviso sbucano due piccole braccia. Il contrasto delle stoffe di cui sono fatte le diverse parti disorienta, il tessuto liscio delle braccia è ruvido e sgradito. Ma bisogna terminare l’esplorazione con coraggio e salire fino in cima, dove meraviglia! Come l’acqua a un assetato ritorna il materiale vellutato. Non solo, che delizia, le dita si inseriscono in coni di dolcezza coccolosa. Cosa sono questi tubi misteriosi, e perché sono su quella che è la testa? Ciò che sento è per caso un animale orecchiuto? La sicurezza vacilla, le certezze si infrangono, e al culmine dello sconforto la disfatta: amara ruvidezza, anche in mezzo ad un mare di piacevolezza! Due piccole foglie, ritorno all’ipotesi iniziale. Ma l’animo è sconfitto, continuare mi è penoso. L’oggetto infido viene abbandonato. (Eleonora Sartori)

 

Mi sveglio, cerco di accendere la luce della stanza ma non trovo l’interruttore, così rassegnata brancolo nel buio alla ricerca di qualcosa di utile. Scorro sulla scrivania tutti gli oggetti che avevo lasciato sparsi la sera prima. I capelli mi cadono sulla faccia ripetutamente, infastidita da quel disordine in testa ravano in modo quasi ossessivo tra gli oggetti. Poi lo trovo: sottile come una lamina di ferro, rivestito da un lato di un tessuto morbido tutto colorato mentre dall’altro si sente il freddo metallico, curvo su sé stesso, è in perenne tensione verso un cerchio che non chiuderà mai. Sento le due estremità rigide e appuntite che andranno a solcare per tutto il giorno le mie orecchie fino a quando la sera non lo toglierò riprovando così una sensazione di libertà e sollievo. (Camilla Graziani)

 

“Ehi, Claudia…”

“Buongiorno, dottore”.

“Non mi aspettavo di vederti oggi… non mi sarò per caso dimenticato un nostro appuntamento, vero?”

“No, dottore. Sono qui senza prenotazione, perché sono stata colpita da una malattia improvvisa e tremenda”.

“Cosa intendi? Cosa c’è che non va?”

“La mia testa, dottore”.

“Emicrania?”

“No”.

“Ti sei ferita in qualche modo?”

“No”.

“Cosa succede, allora?”

“Mi mancano le parole”.

“Non credo di capire, Claudia”

“Intendo che non mi vengono più in mente i nomi delle cose. Stamattina, per esempio, ero in pasticceria e non riuscivo a dire alla commessa che volevo la… ecco, di nuovo!”

“La torta, vuoi dire?”

“Si, esatto. Oppure a scuola, più tardi, volevo chiedere a Giacomo di passarmi la… la…”

“Penna?”

“No, è una cosa tonda. Come si chiama?”

“La gomma?”

“Mannò, è più grande ed è fatta da tantissimi… cosi… intrecciati tra loro, come fili”.

“Intendi una spilla o qualcosa di simile?”

“No, no. È una di quelle… cose… che prendi quando devi legare insieme più oggetti”.

“Una graffetta, magari ne hai di tonde!”

“No, è più grande, le ho detto. Assomiglia ad una palla, ma è fatta di quei… cosi… che si allungano”.

“Qualcosa come la gomma-pane, magari?”

“Assolutamente no! È fatta di tanti fili allungabili, le ho detto! Quelli di cui sono fatte le fionde, per intenderci”.

“Elastici!”

“Si, esatto! Capisce quanto sia grave la mia condizione?”

“Claudia, prova soltanto a dormire di più”.

(Giulia Tori)

 

 

Profumo8. Parlando di olfatto non abbiamo potuto esimerci dal confronto con “Il profumo”, celebre romanzo dell’autore tedesco Patrick Süskind. In una delle scene più note, il protagonista viene rapito da un odore ammaliante e si trova a inseguirne la scia per le strade di Parigi, fino a individuarne la fonte in una ragazza. Le biblioscrittrici e i biblioscrittori, a cui era stato chiesto di portare da casa qualcosa di “olfattoso”, che emanasse un particolare aroma (o, al più, una particolare puzza), si sono poi immaginati sulle tracce dell’odore loro assegnato lungo i corridoi della scuola, sotto i portici di Bologna o in un qualunque altro luogo conosciuto. L’esercizio ha richiesto la messa in atto di tutte le abilità acquisite nel corso del laboratorio: nulla di meglio a concluderne il florilegio.

 

Spalanco gli occhi. C’è qualcosa che non va. Non riesco a sentire nulla. Scendo dal letto e mi reco in cucina, in teoria mia madre ha preparato una torta al cioccolato ma io non sento nessun dolce profumo. Di conseguenza anche la fetta di torta che addento risulta insipida, come offuscata dalla nebbia. Tristemente mi reco a scuola pronta ad affrontare una giornata all’insegna dell’approssimazione. Varco il portone in legno, inizio a salire le scale della presidenza, mi giro indietro per vedere se i miei amici stanno salendo e mentre mi volto qualcuno mi sorpassa correndo su per le scale. Mi volto di scatto: lo spostamento d’aria così ravvicinato risveglia in me qualcosa. È un odore così intenso e particolare che il mio naso malaticcio non può ignorare. Sa di uvetta passita, di quella che la nonna ti chiede di prendere dalla credenza troppo alta per lei. È un dolce pungente che pizzica piacevolmente le mie narici e mi stuzzica. È un dolce rosso, di un rosso intenso e pesante come la sabbia. Immediatamente inizio a rincorrere quella figura e finalmente vedo la mia preda: è un ragazzo con uno zaino giallo, scarpe Nike, un jeans classico e una giacca nera aperta. Sta correndo sempre più velocemente, sembra quasi saltare i gradini. Cerco di acquistare la sua andatura per non perdere la mia unica fonte di freschezza. Inciampo tra le scale e lui scompare dalla mia vista ma per fortuna mi è rimasto impresso quel profumo così proseguo l’inseguimento. Arrivo al secondo piano, davanti alla statua di Galvani, la scia gira a sinistra e prosegue lungo tutta la parete fino ad arrivare nei bagni. Adesso lo sento ancora più intenso e forte, poi intravedo il ragazzo: ha la maglietta tutta sporca di una polverina rossa che sta cercando di lavare via. Prima di fare un ulteriore passo in avanti, mi fermo e indietreggio: non voglio rovinare quella sensazione di impotenza e di rinascita che ha illuminato la mia giornata. (Camilla Graziani)

 

Esco da scuola, un odore si insinua zitto zitto nel mio naso, sale fino al mio cervello, che affiora ricordi confusi. “Dimmi che sai cos’è”. “No”. ”Lisa, lo senti anche tu questo profumo?” “Quale profumo?” “Il profumo delle margherite appena colte, il gelsomino sull’albero, il chinotto, le arance dalla Sicilia assolata”. “No, non sento nulla”. Decido, allora, di seguire questo odore. Mi bisbiglia “Vieni, seguimi, lo so che mi conosci”. Corro. Ricordi offuscati mi tempestano la mente: mille odori di 14 anni di vita si risvegliano. Sarà male odore dei giardini? Oppure della scuola. No, è un odore più delicato, gentile, premuroso e accogliente. Arrivo all’ incrocio con via Farini. E ora? Destra o sinistra? Andiamo dritti. L’odore si fa sempre più intenso. E come in un attimo mi ritrovo in via Ugo Bassi. Tutto sembra odorare uguale. Le opzioni sono due: o seguo il mio istinto, o seguo il mio istinto. Sicura di me corro, corro più veloce che mai, ma il profumo si disperde. Ma come, ero totalmente sicura! Torno indietro. Il profumo mi prende per mano, mi accompagna. Odore del sud, del calore delle persone, dei campi di agrumi, del mare, della sabbia bagnata, del profumo estivo della mia nonna, di vacanze. Ecco arrivata alla foto del profumo: muji. Subito entro, a destra nella parte dedicata alle essenze, il profumo mi saluta impaziente di avermi aspettata. Mi saluta e mi dice: “Finalmente ce l’hai fatta!” Mi porta a sedere e mi fa ricordare tutto: la pioggia, il profumo di casa, il profumo dell’accoglienza; di quel profumo al bergamotto che si disperde per tutta la casa. Sa di solarità e di fedeltà; di gioia e di delicatezza. Il profumo resta impresso nella mia mente, come un ricordo indelebile, ma che va via lentamente. (Diletta Andreoni)

 

Suona la campanella e io alzo la testa dal foglio degli appunti, stanca dopo un’ora di scrittura. Dalla finestra alle mie spalle entra un soffio di vento: al suo passaggio, diverse ciocche di capelli svolazzano e, infine, la porta di legno in fondo alla stanza si apre, per poi richiudersi in fretta. Però, questi pochi secondi risultano sufficienti: la stanza viene pervasa da un odore nuovo. È leggero, ma non si può non sentire: conquista l’olfatto e lascia la propria impronta. Il suo segno rimane indelebile come una firma, un tratto nero sul bianco dell’aria. Anche quando il profumo comincia ad avviarsi verso l’esterno, pronto ad abbandonare la stanza, il suo ricordo è ancora immobile nella memoria e alle narici sembra quasi di continuare a percepire la stessa dolcezza. Nostalgica, mi alzo e mi dirigo verso l’uscita della classe, la sorpasso e mi blocco in mezzo al pianerottolo tra il piano A e il piano B della sede scolastica. Alcuni studenti mi guardano attenti, incuriositi forse della mia improvvisa comparsa da dietro un muro, forse dalla mia posizione statuaria e indagatrice, ad occhi chiusi, mentre fiuto l’aria. Di nuovo, mi abbraccia lo stesso odore. Assomiglia alla fragranza inebriante di un campo di fiori di Marsiglia, ma meno intenso, come se i petali fossero stati separati gli uni dagli altri e immersi nell’acqua: arriva potente come un fiume in piena, che tuttavia non travolge, anzi avvolge. Come una nave cullata dalla tenerezza delle onde del mare, procedo verso la direzione da cui mi sembra provenire il piacevole aroma. Salgo le scale e giro a sinistra: il profumo si fa più acceso. Come le gradazioni di uno stesso colore, esso sfuma verso la sua versione più profonda. Continuo a seguirlo, risalendo controcorrente il suo corso. Giro a destra e un sapore di frutta aspra mi pizzica la lingua: ormai il profumo è tanto forte da annebbiare i pensieri. Sorpasso le grandi finestre, poi mi fermo, mi giro e mi affaccio: il cortile interno della scuola è ormai scomparso sotto tre camion. Alcuni addetti scaricano innumerevoli scatole e, su ognuna, campeggia la stessa scritta: “Fornitura di sapone al melograno”. Prendo un nuovo, grande respiro consapevole e sorrido. Non vedo l’ora di lavarmi le mani. (Giulia Tori)